E’ un allevatore di Vittorito, Adriano Marrama, a riaprire il fronte della “mafia dei pascoli” in Abruzzo, tornando a denunciare l’inquietante fenomeno dopo l’esposto presentato due anni fa alla Guardia di Finanza. “Ho sollecitato la Finanza ad andare avanti nelle indagini, per porre fine ad una speculazione indecente e dannosa per allevatori e agricoltori abruzzesi” precisa Marrama. La cosiddetta “mafia dei pascoli” è un business “legale”, che frutta milioni di euro sul “giro” di terreni agricoli e demaniali delle aree montane dell’Appennino centrale per migliaia e migliaia di ettari di alpeggi.La “mafia dei pascoli” consiste in una speculazione di organizzazioni criminali e sedicenti aziende agricole che da decenni prendono in fitto terreni al solo scopo di incassare i fondi resi disponibili dall’Unione Europea per gli allevatori. In Abruzzo ogni anno arrivano circa 20 milioni di euro di fondi comunitari da destinare agli allevamenti. “Di questa questione nessuno ne parla nonostante le denunce ufficiali” sottolinea Marrama, che sul caso ha presentato un sostanzioso e voluminoso dossier. Secondo la denuncia dell’imprenditore, grandi aziende del Nord Italia affitterebbero vaste aree di terreni con lo scopo di veder fruttare i titoli di coltura in loro possesso ma senza poi garantire l’effettiva attività di pascolo degli armenti, spesso fantasma o ridotti a pochi capi di bestiame, in alcuni casi malati e decrepiti, a volte lasciati addirittura incustoditi, bestie “figuranti” che servono solo a legittimare l’ottenimento dei fondi europei. In sostanza, stando alla denuncia dell’allevatore peligno, gli speculatori porrebbero in essere un utilizzo improprio del pascolo con il solo scopo di ottenere soldi pubblici, un danno per il territorio e per gli allevatori locali, di fatto tagliati fuori, che rischiano di chiudere e cessano le loro attività perché non riescono a competere con le grandi aziende di fuori regione.“Si sta stravolgendo un territorio che per millenni ha permesso alle popolazioni di vivere. Un giochetto che è ormai sotto gli occhi di tutti – continua l’imprenditore – in uno degli stazzi di Cocullo, solo per fare un esempio, lo scorso anno, pascolavano quattro asini vecchi sgangherati, deperiti, senza acqua, poi morti di stento. La morte degli asini venne attribuita all’attacco dei lupi ma chi vive il territorio quotidianamente sa bene che così non è stato. Come alcune bufale che invece di stare negli acquitrini, contesto conforme al loro tipo di allevamento, bivaccano sulle nostre montagne”.“Il problema è che gli allevatori locali non hanno i titoli per competere con le grosse aziende del nord, la maggior parte delle quali – sostiene Marrama – ha un contratto in scadenza nel 2021 con accordi di quattro anni, quando la legge obbliga invece i Comuni a fare un avviso pubblico annuale per l’affitto dei pascoli. Inoltre – puntualizza – l’attestazione dei titoli si ristabilisce, guarda caso, proprio nel 2020 e, neanche a dirlo, gli allevatori locali sono praticamente fuori concorso”. Per titoli si intende il requisito Pac, acronimo di Politica Agricola Comune, il punteggio che accumula un’azienda in base alla superficie agricola di pascolo. L’attuale normativa, in vigore fino al 2020, prevede un valore per i titoli di circa 230 euro per ettaro, a cui si aggiungono altri contributi a seconda delle condizioni specifiche.Il problema è che il valore dei titoli non è uguale per tutti e il canone di affitto delle zone montane è di conseguenza lievitato fino a quattro volte rispetto alla tariffa che pagavano in passato i pastori locali. Una situazione che di fatto favorisce i grandi gruppi e le cooperative di fuori regione. Quindi tutto quello che sulla carta è un forte sostegno all’attività agrozootecnica e pastorale in montagna, nella realtà può rappresentare un vero e proprio incentivo alla speculazione. “Nel nostro territorio – precisa Marrama – alcune aziende del nord hanno comprato vecchie stalle in disuso e preso anche la residenza. Così non pagano l’affitto del pascolo e aumentano i titoli in possesso. A rimetterci sono sempre gli allevatori locali che non possono competere in alcun modo”. “Nel giugno del 2018, paradossalmente, è stata reintrodotta nella normativa ministeriale la possibilità di pascolamento terzi, un altro trucchetto – spiega ancora l’allevatore – che agevola di fatto le speculazioni e le truffe”.“Alcune società – dice – hanno prestanome locali e l’evidenza pubblica di affido è poco trasparente. Il risultato è che le nostre imprese agricole sono costrette a chiudere oppure a svendere ma c’è sempre qualcuno di loro pronto a comprare per quattro soldi”. Un decreto ministeriale del 2015 sanciva infatti che per poter accedere ai fondi comunitari occorreva non solo la disponibilità dei terreni ma anche che gli animali al pascolo fossero di proprietà dell’azienda. Una disposizione che garantiva maggiori tutele ai pastori locali finita però in una bolla di sapone. Alcuni pascolamenti, sempre secondo la denuncia dell’allevatore, prevedono uno stazzo di 60 giorni dopo i quali il bestiame viene trasferito in altre pasture. “Sembra il gioco delle tre carte. Venti milioni di euro equivalgono a duecentomila pecore circa ma sugli alpeggi abruzzesi non se ne vedono nemmeno la metà, le montagne sono quasi deserte” osserva Marrama che ha inserito anche questo aspetto burocratico “ingegnoso” nell’esposto presentato alle Fiamme gialle. Così se da una parte c’è un guadagno per enti locali e amministrazioni dei beni di uso civico e dall’altra il territorio viene impoverito perché i pascoli sono in gran parte diventati appannaggio di grandi aziende, che lucrano risorse dell’Unione Europea, senza che venga svolta alcuna attività effettiva di pastorizia, sottraendo fondi e alpeggi agli imprenditori locali che sono costretti sempre più spesso a chiudere le loro attività, davanti ad una concorrenza sleale.
Fonte:www.reteabruzzo.com
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